EDITORIALE – Oggi, 2 novembre, giornata della Commemorazione dei Defunti, non è solo un momento di raccoglimento, ma un viaggio interiore. Un giorno in cui la memoria si fa carne, in cui i nomi risuonano come note familiari dentro di noi. Non ricordiamo soltanto la morte, ma la continuità della vita che resiste, silenziosa, in chi resta. Più avanza il tempo della nostra vita in terra e più aumenta il numero di persone che hanno fatto parte integrante e sostanziale della nostra vita che non sono più presenti. Visitando il cimitero, e questo accade per lo più nei centri minori, ci si rende conto che man mano si conoscevano tutti coloro che sono ormai nel luogo di eterno riposo. Ciò fa aumentare nostalgia, tristezza e specialmente quando sono nostri cari, familiari, o comunque persone che hanno avuto un ruolo importante nella nostra vita e nella nostra formazione.
Valérie Perrin, scrittrice contemporanea francese, ci regala una verità semplice e sconvolgente: la morte non è la fine, è il passaggio in un’altra forma di presenza. Gli assenti non smettono di esserci, cambiano solo modo di parlarci. Alcuni li sentiamo nel profumo del caffè la mattina, altri nella luce che entra da una finestra. Ci accompagnano, discreti, dentro il cuore delle nostre giornate.
La vita, se ci si pensa, è una costruzione complessa, faticosa, fragile. Si nasce, si cresce, si lotta, si ama — e poi, in un istante, tutto si interrompe. Basta un respiro mancato, un istante imprevisto, e ciò che sembrava eterno si dissolve. Si muore con facilità disarmante, eppure viviamo spesso come se fossimo eterni, come se il tempo fosse un credito inesauribile. La morte, nella sua crudezza, ci restituisce il senso dell’essenziale. Ci insegna a distinguere ciò che conta davvero da ciò che non vale nulla. Eppure, lo dimentichiamo in fretta. Ci accaniamo in una corsa cieca, accumuliamo oggetti, illusioni, rancori. L’idea stessa della fine ci spaventa al punto da non volerla vedere, da far finta che non esista. Ma ignorare la morte significa anche impoverire la vita.
Forse il segreto sta nel modo in cui scegliamo di vivere. Non si tratta di grandi gesti, ma di piccoli atti di presenza. Aiutarsi reciprocamente, senza aspettarsi nulla in cambio, è un gesto rivoluzionario in un mondo che misura tutto con la bilancia dell’interesse.
Essere “portatori di luce” — come scriveva Simone Weil, “coloro che si inchinano davanti alla sofferenza altrui” — significa accorgersi dell’altro, anche solo per un istante. È scegliere la gentilezza invece della freddezza, la parola buona invece del giudizio, la mano tesa invece della spalla voltata. La luce non ha bisogno di grandi platee: basta un gesto piccolo per scaldare l’ombra di un cuore stanco.
Viviamo in tempi fragili e rumorosi, in cui la solidarietà sembra un valore smarrito, e la tenerezza una debolezza. Ma forse l’unica forza autentica è proprio quella di chi sa fermarsi, ascoltare, accogliere. Perché, come diceva Battiato, “di noi resteranno solo polvere e segni”: tutto il resto svanirà. Eppure quei segni, se sono fatti d’amore, di cura, di umanità, continueranno a brillare anche quando non ci saremo più. La memoria dei defunti non è un rito di nostalgia, ma un atto di resistenza. È il modo in cui la vita si oppone all’oblio. Ogni volta che ricordiamo chi ci ha lasciato, costruiamo un ponte tra le dimensioni: quella visibile e quella invisibile.
Ci sono persone che non si dimenticano perché hanno inciso la loro esistenza dentro la nostra. Vivono nei nostri gesti, nei modi di dire, nei pensieri che ci attraversano senza preavviso. Non serve crederli lontani: sono in una forma di presenza diversa, fatta di energia, di affetto, di memoria viva. La morte non spezza i legami, li trasforma. E nel silenzio di chi non c’è più, possiamo ancora trovare risposte.
Viviamo in una società che esalta la forza, l’apparenza, la velocità. Ma è una società ammalata, perché ha smarrito il senso del limite, della compassione, della cura. Ci indignamo per tutto e comprendiamo poco. Ci parliamo addosso, ma non ci ascoltiamo. Forse la cura per questo smarrimento è antica come il mondo: pace, solidarietà, amore. Non parole astratte, ma pratiche quotidiane. Il rispetto per il dolore altrui, l’empatia come linguaggio comune, la gratitudine come forma di preghiera laica. E poi il silenzio, una virtù che esalta la vita ed evita contrasti.
Smettere di accanirci in vite dominate dall’egoismo e dall’indifferenza non è debolezza, è consapevolezza. Perché quando la fine arriverà — e arriverà per tutti — ciò che resterà non saranno le vittorie o le ricchezze, ma i segni invisibili dell’amore dato e ricevuto.
La dimensione terrena, in fondo è costruita dall’uomo che nasce per edificare, continuamente. L’impeto è quello di voler raggiungere sempre qualcosa ma nonostante l’uomo faccia sforzi immensi nel costruire muri dentro i quali ripararsi, si dovrà tener conto che la volta, il cielo resterà sempre stellato.
Ricordare i morti dunque significa, in fondo, scegliere di restare vivi. È un modo per dire che il tempo non distrugge, ma trasforma. Ciò che abbiamo amato non si perde, si trasfigura. Chi abbiamo amato non svanisce, diventa parte di ciò che siamo. Forse non c’è modo migliore per onorare i defunti che vivere bene, con pienezza e con gratitudine. Essere, noi stessi, quella luce che un giorno qualcuno ricorderà.
Perché, come scriveva Emily Dickinson,
“La morte non è che un’altra forma di vivere, nel cuore di chi resta.” E allora, oggi più che mai, tra i fiori dei cimiteri e il profumo dell’autunno, fermiamoci a pensare a chi non c’è più. Ma anche a chi c’è, accanto a noi, e ha bisogno di essere visto, accolto, amato. Perché la vita, con tutta la sua complessità, non chiede di essere eterna: chiede solo di essere vera.

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