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In quei giardini che nessuno sa!

EDITORIALE –  Ci sono giardini nascosti, silenziosi. Nessuna aiuola ordinata, nessuna fontana zampillante. Nessuna famiglia del mulino bianco in festante colazione assolata. Solo terra umida di lacrime, sentieri battuti da passi invisibili, fiori che sbocciano nel buio del silenzio. Sono i luoghi interiori delle persone fragili, emarginate, dimenticate. Quei giardini che pochi visitano, che pochi raccontano.

Renato Zero, con Nei giardini che nessuno sa”, ha fatto ciò che i veri artisti fanno da sempre: ha dato voce all’invisibile. La canzone, uscita nel 2000 all’interno dell’album “Amore dopo amore”, è una delle sue composizioni più delicate e struggenti. Zero la dedica alle persone dimenticate: ai malati, ai disabili, ai senzatetto, agli anziani soli, ai cosiddetti “diversi” in ogni forma. È un inno alla dignità silenziosa di chi soffre, un appello a guardare con occhi nuovi coloro che la società rifiuta o nasconde. Nei suoi versi, il dolore si trasforma in un giardino interiore, sacro, profondo. Un luogo da cui potrebbe rinascere il senso stesso dell’umanità, se solo trovassimo il coraggio di entrarci.

Come Pasolini, che con i suoi “ragazzi di vita” ha illuminato i vicoli oscuri dell’esistenza scartata. Come Victor Hugo, che ne I miserabili ha ridato volto e voce a chi era stato condannato dal pregiudizio. Come Cristo, che ha rovesciato ogni logica di potere abbracciando gli ultimi, Zero ci chiede di fermarci, guardarci attorno e soprattutto guardare dentro.

Siamo tutti cittadini di un mondo nel quale siamo arrivati per caso. Nessuno ha scelto la famiglia in cui nascere, il corpo da abitare, la lingua che parlare. Eppure, ogni giorno costruiamo muri: sociali, culturali, economici, emotivi. Come ricordava Italo Calvino nelle Città invisibili, ogni essere umano è un paesaggio nascosto, un racconto che merita di essere ascoltato. La vera civiltà si misura dalla capacità di riconoscere l’altro, soprattutto quando ci appare scomodo, fragile, “diverso”.

La storia umana è attraversata da discriminazioni: dalle caste indiane agli internati nei manicomi, dalla Shoah ai moderni ghetti urbani. La sofferenza sociale non è un fenomeno del passato: è qui, ora, accanto a noi. Invisibile solo a chi non vuol vedere.

Ma la vita non è un curriculum, non è una prestazione da offrire. È un dono. E come ogni dono, acquista senso solo quando è condiviso. Il tempo che passa è solo un involucro: il corpo si consuma, la mente evolve, ma la persona resta. Protagora ci ricorda che “l’uomo è misura di tutte le cose”, e non c’è ideologia o mercato che possa smentire questa verità.

La filosofa francese Simone Weil scriveva: “L’attenzione è la forma più rara e più pura di generosità”. È da questa attenzione che dobbiamo ripartire. Dall’ascolto, dalla vicinanza, dalla scelta consapevole di essere presenti nella vita degli altri, anche senza ricevere nulla in cambio.

Questo non è solo un editoriale. È una denuncia sociale, un atto d’amore e di responsabilità. È una condanna aperta contro ogni barriera che separa, contro ogni logica che discrimina, contro ogni sistema che produce esclusione. La persona è il centro della vita, e come tale va protetta, amata, rispettata. A prescindere.

Siamo chiamati a vivere a favore di tutti e contro nessuno, padroni di niente, schiavi di nessuno. A camminare nei giardini che nessuno sa con passo gentile, con cuore attento. Ad essere testimoni di un’altra possibilità di mondo: più umano, più giusto, più vero.

Perché nei giardini che nessuno sa, la speranza continua a fiorire. Anche quando nessuno la guarda.

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